Tesi di Laurea - Capitolo 1 - Studio Legale Ranchetti

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CAPITOLO 1


IL MOVIMENTO VALDESE DALLE ORIGINI ALL' ETÀ DELLA
CONTRORIFORMA


Sommario: 1. Origini e fisionomia del movimento. Le ragioni delle condanne. 2. La diaspora del valdismo e l'insediamento nelle Valli. 3. Le persecuzioni inquisitoriali nelle Valli dal XIV al XVI secolo. 4. La politica intollerante dei duchi sabaudi: 1559-1675.


1. Origini e fisionomia del movimento. Le ragioni delle condanne.

1.1 Il termine "valdese", si riferisce oggi a due realtà distinte e collegate: una confessione ed una regione.

La prima è la chiesa evangelica valdese, che, pur contando poche decine di migliaia di membri, insieme agli ortodossi, è la più antica comunità cristiana non cattolica pervenutaci dall'età medievale e tuttora esistente, nonostante le persecuzioni a cui fu sottoposta.

In secondo luogo, il termine "valdese", indica la zona, (le vallate del Piemonte occidentale, da Pinerolo ad andare verso la Francia, dette appunto, Valli Valdesi), in cui i valdesi si stabilizzarono, a partire dalla prima metà del 1200, assumendo la configurazione di un popolo-chiesa.

Ma il nome "valdese" , che la comunità religiosa assunse e che fu trasmesso alle valli, da quella abitate, risale ad un cittadino francese di Lione, ricco mercante, di nome Valdo, che, intorno al 1170, anticipando il modello francescano, abbandonati i suoi beni, volle vivere con i suoi seguaci, la perfezione evangelica degli apostoli.


In un testo, tratto dagli archivi dell'Inquisizione francese, intorno alla metà del 1200, si legge:
“.. a motivo di questa disubbidienza e di questa usurpazione presuntuosa, di un compito che non compete loro, quello della predicazione, e a causa della loro contumacia, sono stati scomunicati ed espulsi dalla Patria.... Essi non esitano a coinvolgere nella predicazione anche le donne...”. Non fu quindi il voto di povertà a suscitare la reazione della chiesa. Ciò che essa mirò subito a colpire fu il diritto alla libertà di predicazione, vale a dire alla libertà di parola.
La predicazione, per le caratteristiche che le sono proprie, è una forza che può diventare un potere. Era bene che l'uso di questa forza fosse strettamente controllato dalle autorità, e, in primis, dal Magistero della Chiesa, Mater et Magistra. Pertanto la predicazione sarebbe spettata solo a membri consacrati dalla stessa, formati e selezionati dopo anni di studio, acciocchè si limitassero ad essere docili trasmettitori del Magistero ecclesiastico.

I valdesi, avevano rifiutato questa discriminazione e avevano avuto il torto di esercitare la predicazione non solo nelle chiese, ma anche nelle piazze, nelle case, spesso trasformando un sermone in un pubblico dibattito.
Essi non intendevano costituire un ordine religioso, la cui regola fosse approvata dal Papa, nè intendevano rinchiudersi in solitari conventi.
Predicavano nelle città, spostandosi dall'una all'altra; scrivevano trattati e ne diffondevano le copie; distribuivano casa per casa la Bibbia consentendone la lettura; facevano partecipare le donne alle assemblee e le invitavano alla predicazione.
Per tutti questi aspetti essi rappresentavano un elemento di eversione dell'assetto sociale ed ecclesiastico del tempo.

1.2 La reazione delle autorità costituite non tardò a sopraggiungere. La Costituzione "ad abolendam diversarum haeresium pravitatem", fu frutto di una operazione congiunta fra il Papa Lucio III e l'imperatore Federico I di Svevia detto il Barbarossa.
Tale Costituzione, del 4 novembre del 1184, fu emessa al termine del Concilio tenutosi nella basilica di S. Zeno in Verona, dove Papa ed imperatore si erano dati convegno per reimpostare i loro rapporti sulla linea di una rinnovata amicizia.
Lucio III e Federico Barbarossa suggellarono la loro riconciliazione con un patto di mutua assistenza contro gli eretici, catari, patarini e "contro tutti coloro che si arrogano l'autorità di predicare". Il concilio pose i principi fondamentali del Tribunale della Santa Inquisizione e fu invocato il concorso del braccio secolare contro le eresie, sotto la minaccia delle più gravi pene ecclesiastiche
Federico I sottolineò la sua adesione al patto, impegnando il suo onore di re, col gettare a terra il suo guanto, in segno di sfida mortale contro gli eretici.

Le ragioni della condanna del movimento valdese e l'invito perentorio a rientrare nella ortodossia cattolica, furono ribadite nella disputa, fra valdesi e cattolici, che si tenne nel palazzo dell'arcivescovo a Narbona nel 1190.
In quella occasione Bernard di Fontcaude pronunciò le seguenti parole:
".... i chierici pascono; i laici, come pecore, sono pascolati. I primi vivono dell'altare, i secondi devono mantenerli con le loro offerte. I primi possono consegnare i peccatori a Satana; i secondi devono stare seduti innanzi ai chierici e, senza il loro parere, non possono trattare nulla delle cose di Dio".

La condanna, che comportò l'esilio dalla città di Lione, lungi dal debellare il movimento, lo radicalizzò, accelerandone la trasformazione ideologica.
Da un movimento prevalentemente di pietas religiosa, divenne un movimento di protesta, che, nel suo anelito di moralizzazione alla luce del Vangelo, investì in toto i costumi della Chiesa romana, rifiutò la pena di morte, le tasse ecclesiastiche, le decime e alcuni cardini teologici del cattolicesimo ed estese le sue propaggini critiche finanche all'assetto socio-politico del tempo.

Nella resistenza alle persecuzioni, provenissero esse dallo Stato o dalla Chiesa, il movimento trasse forza dalle parole dell'apostolo Pietro, che, nella stretta delle oppressioni, scrisse ai fedeli: "… è meglio obbedire a Dio, piuttosto che agli uomini".



1.3 Non è il caso, in questa trattazione di entrare nel merito, sensu stricto, alle dispute di natura teologica fra valdesi e cattolici, quanto piuttosto è necessario soffermarci sulle implicazioni socio-politiche del messaggio religioso del valdismo. Sarà chiaro allora perchè le persecuzioni a cui i valdesi furono soggetti, nacquero da motivi di intolleranza religiosa, ma furono anche motivate, sia dalla coazione a collaborare, imposta dalla Chiesa allo Stato, sia dalla volontà dell'autorità pubblica di tutelare la stabilità dell'assetto socio-politico del tempo.

Da ciò la piena connivenza tra Stato e Chiesa nella lotta contro gli eretici, perchè il messaggio valdese poneva in discussione, globalmente, il principio di gerarchia e di autorità, pietra miliare dell'assetto ecclesiale e socio-politico feudale. Infatti, la critica che i valdesi fecero alla legittimità o meno dell'autorità ecclesiastica, il loro spirito egualitario nelle delibere ecclesiali, la creazione di organi collegiali, comprensivi di laici, per la gestione delle loro chiese, non potevano non condurli, lentamente, ma inesorabilmente, ad un atteggiamento, se non di aperta critica, almeno di riserva, nei confronti di certe strutture ed istituzioni statali.
È difficile dire, sulla base delle scarse fonti, fino a che punto i valdesi delle origini fossero consapevoli delle importanti implicazioni politiche del loro messaggio religioso. “Certo è, che si è trattato di un processo di lenta chiarificazione, favorito da eventi esterni e condizionato dalla mentalità tipica dell'epoca, che non distingueva mai nettamente tra motivazioni religiose e motivazioni politico-sociali".

Per ciò che concerneva l'autorità ecclesiastica, i valdesi ritenevano i vescovi come successori degli apostoli, solo se avessero applicato il loro mandato come gli apostoli.
Ritenevano, infatti, che il loro prestigio e la loro autorità non risiedessero nell'aspetto formale della consacrazione a quella carica, ma discendessero esclusivamente dal merito, cioè dalla moralità personale.


" Non ordo, sed meritum dat potestatem ". Ora si dava il caso, nel medioevo, che i due ordinamenti, ecclesiastico e civile, fossero inscindibilmente collegati; si modellassero l'un l'altro, si rafforzassero a vicenda. Credere nell'uno comportava credere nell'altro e viceversa.
La fede non era solo una virtù mistica. Essa era soprattutto intesa come fedeltà all'ordinamento costituito.

Che dire se quella critica sulla natura dell'autorità ecclesiastica, fosse stata trasferita, sic et simpliciter, all'autorità statale?
Nel valdismo delle origini l'analogia fra Chiesa e Stato ci fu, ma non in maniera così lineare.


Non ci troviamo di fronte ad una teoresi organica sulla natura dello stato e sul suo operare, ma ad una critica che, muovendo dalla lettura del vangelo, determinò una serie di fermenti di pensiero atti a fornire il quadro di riferimento per un certo agire comportamentale nella pratica quotidiana.
Il valdismo non fu rivoluzionario e non mise a punto formule alternative al sistema vigente, tuttavia nel suo quadro di riferimento vi erano tutte le premesse per preoccupare l'autorità pubblica ed indurla ad accogliere l'invito minaccioso della Chiesa alla collaborazione per una campagna di repressione.


1.4 Quali erano in definitiva, queste premesse? Per i valdesi lo Stato non aveva alcuna autonomia morale al di fuori del Vangelo e le sue leggi non potevano avere alcuna autorità al di fuori della morale evangelica.
Lo stesso ordinamento feudale, che la chiesa cattolica aveva sacralizzato e protetto con i suoi interdetti, non era giustificato alla luce del Vangelo. Pertanto la Chiesa si rendeva colpevole di conferire una legittimazione religiosa ad un ordinamento socio-politico, che aveva invece radici umane.
Di conseguenza, il valdese si rifiutava di prestare, il giuramento d'obbligo all'autorità costituita.
Questo rifiuto del giuramento nasceva per i valdesi da una duplice causa: l'ordine di Gesù di non giurare per nulla e per nessuno e la volontà di non abdicare in toto alla propria scelta morale di fronte ad un ordine dell'autorità che apparisse contrario al dettato evangelico.
La chiesa cattolica, invece, aveva riconosciuto la validità del giuramento di obbedienza feudale e lo aveva eletto a garanzia irrinunciabile per il conferimento di qualsivoglia incarico civile.

Il giuramento univa per la vita ogni membro della gerarchia civile al suo superiore e ne sigillava la dipendenza.
Il valdese, che preferiva andare al rogo, anzichè formulare un qualsiasi giuramento, rappresentava un elemento di scandalo e di perturbazione anomala del sistema gerarchico e paternalistico.
Non giurando e, quindi, non vincolando la sua volontà al superiore, si arrogava una sorta di libertà dai risvolti imprecisabili.
Sostituiva al legame verticale, un legame orizzontale e fraterno, che non poteva non essere temuto, come un possibile fermento di sviluppi che oggi noi definiremmo con il termine di " democratici ".
Un suddito, come quello valdese, capace di affermare che:

"… si deve obbedire alla legge in ogni cosa lecita ed utile e non altrimenti…", tendeva a sfuggire alla sua condizione di suddito, atteggiandosi a cittadino, titolare di diritti e non solo di doveri.
Ciò spiega l'atteggiamento benevolo dei liberi Comuni del tempo nei confronti dei Valdesi e la partecipazione di tanti di essi al movimento comunale.


In conclusione, anche se i Valdesi non ebbero, nonostante le loro affermazioni di principio, un programma operativo di ristrutturazione sociale e politica, i loro presupposti ideologici avevano una tale portata da essere capaci di incrinare la credibilità nei detentori del potere. Perciò gli eretici erano dei rivoltosi potenziali, dei ribelli, di cui giusta era la morte e la espropriazone dei beni, i cui proventi andavano divisi fra le due autorità da essi minacciate: la laica e la religiosa.
Alla cattura dell'eretico contribuirono entrambi i poteri, il braccio spirituale ed il braccio secolare, in perfetta armonia.

Contro quegli organismi politici, che si rifiutassero di ottemperare all'autorità papale, valeva la minaccia dell'interdetto, e contro i singoli, la minaccia della scomunica.

Fu l'interdetto la sanzione che il Papa pronunciò contro i liberi Comuni per indurli a ritirare la loro benevola protezione ai valdesi e per costringerli, più tardi, ad accettare nelle loro mura il Tribunale dell' Inquisizione.

L'interdetto condannava una città alla morte civile ed economica, nonchè al caos, perchè liberava tutti i cittadini dal vincolo del giuramento e tutti gli altri dall'obbligo di rispettare i propri impegni verso coloro che fossero stati colpiti dall'interdetto.
Anche la scomunica sortiva effetti non meno desiderabili per quei signori, che avessero voluto proteggere i propri servi o sudditi valdesi sol perchè utili come lavoratori onesti e solerti.
Pertanto, agli inizi del 1300, vinte le ultime resistenze alla sua introduzione, l'Inquisizione, rafforzata ed affidata ai domenicani, si diffuse in modo abbastanza omogeneo su tutto il territorio italiano ed iniziò la sua crociata interna per lo sradicamento delle eresie.



2. La diaspora del valdismo e l'insediamento nelle valli.

2.1 Alle prime condanne, quelle di Verona del 1184 e di Narbona del 1190, seguirono ulteriori richiami, sconfessioni e scomuniche di vescovi e di sovrani. Tra i più significativi ricordiamo gli Statuti sinodali di Toul del 1192, l'editto di Alfonso I d'Aragona del 1194 e quello di Pietro II d 'Aragona del 1198, confermato dal Concilio di Gerona (Spagna), che, per la prima volta previde nei loro confronti la pena di morte da eseguirsi mediante il rogo.


Tutte queste ripetute condanne avevano però scarsa efficacia applicativa, prima di tutto perchè non erano generali e poi perchè mancava spesso una vera volontà applicativa da parte degli stessi sovrani.
Inoltre quelle emanate dai vescovi non avevano efficacia al di fuori della loro diocesi.
Ciò spiega il clima di relativa serenità in cui visse il valdismo nei suoi primi trent'anni e la facilità di diffusione del movimento.
La situazione mutò radicalmente dopo la crociata (1208) voluta dal Papa Innocenzo III e dal re di Francia Filippo II Augusto contro l'eresia albigese che si era ampiamente diffusa nella Francia meridionale.
La crociata condotta con sistemi militari e come una vera e propria campagna di sterminio, durata complessivamente 15 anni, sortì l'effetto voluto di estirpare l'eresia dal suolo francese, ma nello stesso tempo dimostrò quanto costasse un tardivo intervento.


Perciò, dopo il 1208, Stato e Chiesa rafforzarono la loro collaborazione nei confronti dell'eresie, affinando anche le armi della lotta ideologica e sforzandosi di distinguere, in modo inoppugnabile, le varie correnti eretiche fra di loro, onde poterle colpire più facilmente.

Dopo gli albigesi, fu la volta dei valdesi.

La prima condanna ufficiale dell'eresia valdese, condanna valevole per la Francia innanzi tutto, ma operante in tutti i territori soggetti alla giurisdizione della chiesa cattolica, fu quella pronunciata dal Papa Innocenzo III nel IV concilio Lateranense, tenutosi a Roma nel 1215 e contenuta nel capitolo III "De Haerethicis":



".... Poichè vi è gente che, come dice l'Apostolo: " aventi forme della pietà e avendone rinnegata la potenza" ( II Timoteo 3:5 ), rivendicano per sè l'autorità di predicare, quantunque lo stesso apostolo affermi: " Come predicheranno se non sono mandati?" ( Romani 10:15 ), decretiamo che tutti coloro che hanno l'ardire di impadronirsi del Ministerio della predicazione in forma pubblica o privata, non avendone ricevuto autorizzazione dalla Sede Apostolica o dal vescovo locale, siano colpiti da scomunica. E qualora non si ravvedano, siano loro applicate le altre pene previste ...."


Il rifiuto del giuramento di fedeltà, tipico della posizione valdese, venne assunto dai tribunali inquisitoriali come prova di per sè sufficiente ed inconfutabile di eresia.
Il Concilio impegnò, con giuramento, ogni autorità del mondo cristiano acciocchè, all'atto di assumere la funzione civica che gli spettava, si impegnasse a sterminare gli eretici.
Questa formula venne introdotta per ogni incarico pubblico.
D'altra parte l'obbligatorietà della confessione, che il IV Concilio Lateranense stabilì fosse indispensabile, almeno una volta all'anno, costituì un ottimo " screening " della popolazione.
Infine fu fatto obbligo a qualsiasi laico, pena scomunica personale, di denunciare gli eretici.

2.2 Le persecuzioni indussero i Valdesi a cercare rifugi e collegamenti fuori dalla Francia, per continuare indefessamente la loro opera di predicazione e di insediamento, ovunque si profilasse un minimo spiraglio di tolleranza o di scarso controllo nei loro confronti.
Il primo naturale sbocco del valdismo francese fu la Lombardia, dove trovò un humus fertile nell'eredità patarina ed arnaldiana.Si trattava di una contestazione ecclesiale, che, variamente colpita, appariva, agli inizi del 1200 ormai tramontata.
Ma essa aveva formato gli spiriti ad una particolare sensibilità verso i fenomeni religiosi e la critica ecclesiatica.
Il valdismo dette corpo a questa dissidenza religiosa lombarda e nello stesso tempo ne ricevette forza. Il movimento valdese si era infatti, sino ad allora, diffuso in Francia in modo spontaneo ed aveva operato senza avere proprie strutture.
Prevaleva in esso uno spirito fortemente mistico, che accentuava la separazione dal mondo, pur accettando di vivere in esso.
I Valdesi lionesi avevano vissuto la loro sensibilità religiosa in forme prevalentemente missionarie ed escatologiche.
I valdesi lombardi, che erano in gran parte operai tessili, artigiani, merciai, bene inseriti nel tessuto economico del tempo, non ritennero che l'attività missionaria itinerante fosse l'unico modo di vivere ottimamente il Vangelo.
Essi scelsero di testimoniare la loro partecipazione al Vangelo anche attraverso il consorzio civile e il lavoro, dando a questo il valore di uno strumento di servizio e di purificazione.
Non lo ritennero in definitiva un impedimento ( necessario, ma sempre ostacolante ) all'espletarsi di una perfetta ascesi cristiana, come ritenevano i Lionesi.

Infine i lombardi istituzionalizzarono il movimento, dandogli una struttura, dei capi, (prepositi eletti a vita o rettori con incarico temporaneo) ed una sede, la SCHOLA, dove si insegnava l'Evangelo.

È in Lombardia, quindi, che sorse la "societas" valdese, una associazione di uomini liberi, legati da interessi comuni, che non erano di natura economica, come avveniva nel contemporaneo fenomeno comunale, ma di natura religiosa.
I valdesi, vivevano in stretta comunione gli uni con gli altri ed insieme, con criterio maggioritario, venivano prese le decisioni ecclesiali, alle quali partecipavano anche le donne con parità di voto.
L'assemblea ecclesiale assumeva tutte le caratteristiche di un piccolo arengo.
Il movimento politico dei Comuni italiani capì di poter trovare nel valdismo un alleato contro lo spadroneggiare della Chiesa e dell'Impero, e lo appoggiò decisamente, tentando di strumentalizzarlo nella sua lotta contro feudatari e clero.35 Le città dell'area lombarda costituirono i punti di forza del valdismo. Vi si tenevano Capitoli o assemblee generali delle chiese, nelle quali erano ripartite le offerte, i compiti, puntualizzate le questioni disciplinari e teologiche.
Soprattutto Milano, per la sua antica tradizione ereticale, divenuta libero comune accoglitore nelle sue mura di tanti eretici, parve ad un certo punto opporsi a Roma sede dell'ortodossia cattolica.
Fu Milano a concedere ai Valdesi ( 1199 ) di edificare fuori Porta Orientale, su terreno comunale, apertamente, la loro SCHOLA, fatta poi demolire nel 1205.
Ma anche gli altri comuni ghibellini dell'area settentrionale italiana si dimostrarono favorevoli o almeno tolleranti verso gli eretici.


2.3 Questo favore delle fazioni popolari ed antiguelfe durò finchè esse conservarono il potere. Quando, con il declinare della potenza dei liberi Comuni e con il tramutarsi dei Comuni in Signorie si spegneranno gli spiriti ghibellini e quelli libertari, non ci fu più posto per i non allineati. Abbiamo già ricordato che, a partire dalla metà del 1200, i tribunali inquisitoriali, spesso dietro minaccia di interdetto, vennero insediati nelle maggiori città.
Pertanto, nel ventennio che va dal 1240 al 1260 circa, il valdismo italo-francese fu costretto quasi ovunque ad abbandonare le città, ove era più facilmente esposto, e a cercare territori più sicuri.

Dalla Lombardia si diffuse perciò nel Nord Europa fino al Baltico, in Germania, in Austria, nella Slovacchia, in Boemia, nelle Fiandre.
Nelle zone vicine ai luoghi di origine, cercò rifugio nelle località montane più impervie, per rendersi meno accessibile alle persecuzioni, fidando su una minore sorveglianza locale della Chiesa, sulla debolezza dei controlli statali, sul bisogno impellente di braccia da lavoro da parte di alcuni feudatari. Tra i due versanti delle Alpi Cozie, il francese e l'italiano, destinati a divenire la culla del valdismo dall'età moderna in poi, non erano mancate sporadiche presenze valdesi, data la vicinanza con la Francia ; ne sono testimonianza, prima della metà del 1200, gli interventi legislativi in merito.


Ma, il grosso dell'insediamento deve collocarsi alla metà del 1200, in concomitanza con il grande ciclone delle persecuzioni.
Altri gruppi di valdesi alpini avevano scelto l'Italia meridionale e si erano insediati in Capitanata e nella Calabria, perchè si erano mossi al seguito dei re Angioini, dal 1266 in poi.
Il convergere delle testimonianze e delle fonti, individua proprio nell'Italia meridionale il centro della organizzazione valdese italiana e particolarmente in Manfredonia di Puglia.
I luogotenenti valdesi portavano lì le cospicue collette raccolte; là si formavano e da lì proveniva la maggior parte dei ministri itineranti.

Verso la fine del secolo XV anche l'Umbria e gli Abruzzi, fra Spoleto e L'Aquila, acquistarono grande rilievo per gli insediamenti valdesi, perchè nello Stato pontificio del tempo, il consolidamento del potere statale procedeva più lentamente che altrove.
Certamente, agli inizi, il valdismo trovò più diffusione in quelle categorie sociali che erano scontente della propria sorte, cioè in contadini e montanari o in quanti rimpiangevano le loro libertà passate, schiacciate dai nuovi signori.
Il Molnar, tuttavia, ci ammonisce a voler vedere nei valdesi degli hussiti italiani. Le aspirazioni economico-sociali corsero parallele a quelle religiose, alle quali erano radicalmente collegate; ma le numerose rivolte delle valli, fra il '300 ed il '400, rientrarono nelle " Jacquerie " caratteristiche dell'epoca.
Furono cioè, più gesti spontanei di insofferenza e di protesta per le persecuzioni e le vessazioni subite che non il frutto di un disegno di rovesciamento del sistema feudale in generale.
I valdesi potevano essere degli oppositori, non dei rivoluzionari.
Ma, anche con questa delimitazione, la pericolosità del loro messaggio, rimaneva inalterata nella valutazione delle istituzioni pubbliche e religiose del tempo.

3. Le persecuzioni inquisitoriali nelle valli dal XIV al XV secolo


3.1 Il primo decreto di persecuzione, relativo alle Valli valdesi del Piemonte, il primo di cui si abbia conoscenza, fu un decreto imperiale emanato da Ottone IV ( 1209-1211 ).

Recandosi a Roma , nel 1210, per farsi incoronare dalle mani del Papa e pressato dalle richieste dell'arcivescovo di Torino, Giacomo, lo autorizzò a scacciare dalla sua diocesi i " Valdenses ":

"Ottone, per la grazia di Dio imperatore sempre augusto, al suo beneamato e fedele vescovo di Torino, grazia e buona volontà.
Noi vogliamo che tutti coloro che non marciano nel dritto cammino e che si sforzano di spegnere nel nostro Impero la luce della fede cattolica mediante la perversa eresia, siano puniti con una severità imperiale e che in tutte le parti dell'Impero siano separati dal commercio con i fedeli.
Noi vi costituiamo a guardia degli eretici valdesi e di tutti coloro che seminano l'idra della menzogna nella diocesi di Torino e che attaccano la fede cattolica, insegnando qualche errore perverso. Vogliamo che voi li espelliate dalla diocesi di Torino, fondandovi sulla autorità imperiale ".
Dieci anni più tardi, nel 1220, gli Statuti comunali di Pinerolo stabilirono una forte ammenda per chi ospitasse un eretico.
Un' ordinanza dell'imperatore Federico II, datata da Padova, nel 1224, recita:
" Dobbiamo perseguire i Valdesi con tanto più rigore, quanta è la loro audacia nel combattere con le loro superstizioni il Cristianesimo e la Chiesa ai confini dell'Italia e della Lombardia, dove noi sappiamo con certezza che la loro malizia ha apportato gravi danni. Essi si sono infiltrati di già nel nostro Regno di Sicilia ".


Abbiamo detto che la presenza valdese nell'area alpina era dovuta soprattutto a motivi economici e di sicurezza:
i motivi economici sono spiegati dal fatto che queste valli erano state spopolate da numerose incursioni saracene nell'alto medioevo ed i signori andavano alla ricerca di gente che, adattandosi alla rigidezza del clima, lavorasse quelle terre, recuperandole alle culture. Nè questi signori amavano interrogarsi molto sulle convinzioni religiose dei propri sottoposti.
I motivi di sicurezza, relativa ai tempi, erano dati dal fatto che quelle valli costituivano il punto di incontro e di intreccio di più poteri, non sempre ben distinguibili: del re di Francia, dei Duchi di Savoia, di nobili locali e di arcivescovi.
Infatti, la ripartizione ecclesiastica delle Valli, era diversa da quella civile.
Ecclesiasticamente questi territori dipendevano dai vescovadi di Embrum e di Torino.
Dal punto di vista politico, il territorio si presentava, nel Medioevo, diviso in due parti: sul versante occidentale c'era il Delfinato, i cui signori avevano come stemma un delfino; sul versante orientale c'erano le terre dell'Abbazia di Pinerolo e dei conti di Luserna.
Il Delfinato era un feudo imperiale, diviso a sua volta in due parti; di queste una passò sotto il dominio francese, conservando il suo nome di Delfinato.
L'altra passò sotto il dominio dei duchi di Savoia.
Il confine di allora, però, penetrava nell'attuale Piemonte, perchè appartenevano al Delfinato francese, l'alta valle di Susa, l'alta val Chisone, e l'alta valle Varaita.
Questo territorio tanto complesso sotto il profilo politico, dove i poteri si scontravano e spesso si annullavano a vicenda, era però culturalmente omogeneo per lingua, costumi, economia.


Occorre distinguere la persecuzione contro i valdesi piemontesi in due fasi successive:
la prima che si estende fino al 1559, gestita direttamente dalla Chiesa, attraverso l'Inquisizione;
la seconda, dal 1559 in poi, caratterizzata dall'intervento diretto del sovrano, sia nella fase legislativa che in quella operativa.



La politica dei primi sovrani sabaudi, anche se rigidamente contraria all'eresia e dominata da un forte senso assolutista dello stato, non fu caratterizzata , per circa due secoli, da una specifica operatività nell'espianto di questa presenza religiosa nel loro territorio.
I sovrani non intervennero con una propria legislazione, ma demandarono alla Chiesa il compito di controllare e reprimere l'eresia.
Dato l'enorme numero di valdesi nella zona, calcolati in circa 50.000, in prevalenza schiacciante sui cattolici del posto, Filippo di Acaia, nipote del Duca Amedeo V di Savoia, alla fine del 1297, si rivolse ad un inquisitore perchè controllasse la situazione.
Il tribunale dell'Inquisizione venne così potenziato sui due versanti alpini.

3.2 Ma è solo con il trasferimento dei Papi ad Avignone (1305) e per loro pressione, che l'Inquisizione divenne veramente attiva nelle valli. Il quarantennio dello Scisma d'Occidente ( 1378-1418 ) vide una piccola remissione nella persecuzione a cui seguì il periodo di relativa tranquillità sotto il Duca Amedeo VIII ( 1391-1440 ).
Egli, infatti, volle sottrarre ai domenicani il Tribunale dell'Inquisizione e lo affidò al clero regolare.
Ma, nel 1475, l'attività inquisitoriale riprese con i vecchi sistemi. La stessa duchessa Iolanda (1472-1478), reggente per il figlio Filiberto I, si vide costretta dall'inquisitore a multare i conti di Luserna, troppo accomodanti con i valdesi.
A queste prime avvisaglie, seguì, quasi non prevista, la prima vera campagna di sterminio nelle Valli.
Negli anni 1487-1489, le Valli valdesi, sul versante francese e su quello italiano, furono scosse dalla crociata del legato papale Alberto de Capitaneis, voluta dal papa Innocenzo VIII , per impedire la diffusione del contagio hussita: " il virus boemo". Ciò fu sancito nella bolla del 24 aprile 1487 .
La crociata fu diretta contro i Valdesi del Delfinato e del Piemonte:

" una setta di uomini maligni, pernicosa ed abbominevole, che deve essere scacciata come serpenti velenosi o sterminata, se essi non vogliono abiurare".


A chi partecipasse alla crociata era promessa indulgenza plenaria, remissione dei peccati e diritto ad impadronirsi dei beni degli eretici.


Sul versante francese, la valdesia del Delfinato fu massacrata dalle armate del governatore Filippo di Savoia, col consenso del re di Francia Carlo VIII.
Diversa fu invece la situazione sul versante italiano, dove la disperata resistenza opposta dal popolo in Val d'Angrogna, indusse il duca di Savoia, Carlo I, alla trattativa, nonostante le rimostranze papali.
Si realizzò , in quella occasione, un compromesso che riconfermò i valdesi nei loro privilegi e nelle loro libertà, quelle riservate loro dai Marchesi di Luserna.
Tutto come prima.
Ma il fatto che la delegazione fu ricevuta personalmente dal sovrano, rappresentò un implicito riconoscimento dei diritti acquisiti con la resistenza armata e questo approccio diretto fu il prodromo del futuro intervento personale dei Savoia nella questione valdese.

Tuttavia la colonia valdese, del versante italiano, dopo una persecuzione inquisitoriale durata circa due secoli e la terribile campagna militare del 1487-89, appariva più che decimata nelle sue file.
In una lettera indirizzata nel 1533 a Bonifacio Amersbach, il giurista avignonese Giovanni de Montaigne, valutò a circa 10.000 il numero degli abitanti valdesi nelle zone alpine, contro i 50.000 degli insediamenti del XIII secolo.
Fu questo decimato gruppo di superstiti che, intorno al 1532 , assunse la storica decisione di aderire al movimento riformatore europeo.


Ne derivò tutta una serie di contatti tra esponenti valdesi e riformati. Le trattative si prolungarono per dodici anni e, attraverso riflessioni critiche e dottrinali, portarono i Valdesi ad aderire alla Riforma nel Sinodo di Chanforan (1532).
"Da quell'anno, i Valdesi, da movimento ereticale senza un preciso schema di dottrine ideologiche se non il principio dell'autorità sovrana della Bibbia, e senza una rigida organizzazione ecclesiastica, divennero una chiesa riformata protestante, secondo gli schemi dottrinali ed ecclesiastici del protestantesimo calvinista ginevrino. Il movimento si trasformò in istituzione".
Nel collegamento col protestantesimo europeo, i valdesi dovettero rinunciare a certe punte radicaleggianti del loro pensiero politico.
Acquistarono però respiro europeo e saldarono il destino del valdismo piemontese alla politica delle grandi potenze protestanti.

3.3 L'inquisizione romana, inasprita dall'espandersi della Riforma, si accanì particolarmente a liberare la penisola italiana da presenze ereticali.
Il suo successo contro gli sparsi nuclei valdesi dell'Italia centrale e meridionale, fu assoluto. Ma l'azione di annientamento non fu facile nei confronti dei Valdesi delle Valli, e per tre fondamentali ragioni:
v per la collocazione del loro territorio e la natura dei luoghi, era più facile ai Valdesi del Piemonte la fuga, l'esilio volontario o la clandestinità;
v la loro fede e la loro resistenza erano alimentati da tutto un circuito internazionale di scambi e di contatti con le potenze protestanti europee;
v l' occupazione francese del Piemonte, avvenuta durante le guerre franco-asburgiche, nel ventennio tra il 1537 e il 1559, fu un evento di carattere internazionale, che favorì indirettamente il valdismo. Il sovrano sabaudo Carlo II, in quanto alleato degli Asburgo, dovette subire la occupazione francese del territorio e la perdita del trono.
L'annessione del Piemonte alla Francia favorì il processo di reinsediamento e di consolidamento valdese in quelle terre.
In quel tempo infatti, i sovrani di Francia erano stati costretti, dalla forte presenza calvinista nei propri territori, ad una inusitata politica di tolleranza religiosa.
Gli ugonotti francesi non appartenevano, come i valdesi, ai ceti più umili della società.
Molto numerosi erano, fra di loro, gli esponenti della nobiltà, dei ceti imprenditoriali e finanziari. Poichè la nobiltà delle valli era stata tutta filoasburgica, i nuovi dominatori, per indebolirne il potere ed il prestigio, favorirono nelle valli, per quanto ciò fosse possibile, senza rompere con la Santa Sede, la religione riformata.
Non a caso tutti i governatori francesi del Piemonte occupato, furono ugonotti.
Essi secondarono l'apertura di tante nuove chiese valdesi, non solo nelle valli, ma anche nella vicina pianura e in altre zone del Piemonte, ne accettarono la costituzione ecclesiastica, riconobbero le riunioni dei Sinodi, come organi legislativi della chiesa valdese.
Infine, accogliendo le richieste dei valligiani valdesi, smantellarono alcuni fra i più importanti castelli-fortezze, come Torre, Luserna, Perrero, Bricherasio, simboli di un potere politico e di una minaccia costante alla fede religiosa riformata.
Ma quando il vento del Concilio di Trento (1544) cominciò a spirare sull' Europa e gli stati andarono allineandosi alle richieste delle bolle papali, il principio della tolleranza religiosa, già prima non praticato se non accidentalmente, lasciò posto al principio della Pace di Augusta (1555), ribadito dal trattato di Cateau-Cambrèsis:
" CUIUS REGIO, EIUS ET RELIGIO".

Si dava così il via in tutta Europa ad ogni sorta di persecuzioni e di vessazioni, singole o di gruppo, nei confronti di coloro che ottemperassero ad una fede religiosa diversa da quella del loro sovrano.
Con il trattato di Cateau-Cambrèsis del 1559, lo stato sabaudo riprese la propria indipendenza.
Dopo la tranquilla, ma non troppo, parentesi del dominio francese, i valdesi si trovarono ad affrontare il duplice rigore di una Chiesa cattolica controriformista e di una dinastia ducale, fieramente volta a perseguire una politica di piena ed assoluta sovranità sul territorio e sui sudditi.
In questo obiettivo politico non c'era e non vi poteva essere, spazio per la dissidenza.
Ora, più che mai trono ed altare si collegarono insieme per spezzare qualsiasi forma di opposizione. È quindi alla metà del XVI secolo che i duchi di Savoia presero le redini della condotta nei con fronti degli eretici, fondando una vera e propria legislazione ecclesiastica dello stato sabaudo contro l'eresia valdese.



4. La politica intollerante dei duchi sabaudi 1559-1675




4.1 In questo clima ideologico, così radicalizzato, il duca di Savoia, Emanuele Filiberto, riprese, nel 1559, il possesso di tutti i suoi territori.
Egli era ben deciso a stroncare l'eresia dai propri territori, sia per sincera adesione alle bolle pontificie, sia per timore che questa potesse nuocere alla integrità del proprio stato, a favore dei Cantoni svizzeri o della Francia.
Il 15 febbraio 1560, con l'editto di Nizza, il duca comminò una multa di cento scudi d'oro a chi avesse ascoltato per la prima volta un culto protestante e la galera a vita per i recidivi.
Alla riottosità dei Valdesi, i quali gli fecero sapere che " occorre obbedire a Dio, anzicchè agli uomini ", il duca rispose approntando nell'ottobre 1560, una spedizione militare contro i suoi sudditi ribelli.
Le operazioni militari si protrassero fino all'accordo di Cavour del 5 giugno 1561.


Questo accordo è particolarmente importante per un duplice motivo:
da un lato, è abbastanza significativo che fosse stato firmato da delegati ufficiali delle valli, pastori e laici. Ciò implicava che il duca, come già il suo predecessore Carlo I, aveva riconosciuto i valdesi come una entità minoritaria, capace di esprimersi mediante una rappresentanza. Riconosceva a tutti quei dissidenti il diritto a professare la loro religione e si faceva garante di questa libertà; d'altro canto, questo accordo, realizzava nel concreto quella idea del " ghetto ", alla quale, come male minore, Emanuele Filiberto aveva dovuto giocoforza risolversi dinanzi alla disperata resistenza opposta alla cattolicizzazione.


Poichè non era stato possibile sterminarli tutti fino all'ultimo esemplare, il male minore era quello di confinarli in modo tale che fossero innocui per il resto della popolazione, impedendo loro, con ogni mezzo, qualsiasi forma, aperta o meno, di proselitismo.

Il trattato di Cavour, infatti, riconobbe l'esistenza dei Valdesi nei confini del Ducato e concesse loro una limitata libertà religiosa. ma circoscrisse abitazioni e culto in un perimetro ben determinato che era quello delle Valli, a quel tempo da loro abitate. Però concesse che potessero circolare nel resto del territorio del Regno,come nel caso di affari o di mercanzia e che
"...et caso che fussero interrogati della loro fede, potranno rispondere senza incorrere in pena alcuna, reale o personale ".
I pastori rimasero per i loro fedeli ufficiali di stato civile, tenuti alla registrazione degli atti di nascita, morte, matrimonio.
Rimase il vincolo che Sua Altezza potesse licenziare i Ministri, che gli fossero stati sgraditi, ma solo dopo che la comunità ne avesse ricercati e fatti venire degli altri. Quanto alle professioni liberali, si consentì ai Valdesi di avere notai e medici, ma essi non potevano esercitare se non nei confronti dei membri della stessa comunità.


Questo trattato, definito dagli ambienti militaristici della corte un accordo vergognoso e condannato aspramente dal Papa, può essere considerato come una pietra miliare sulla difficile via del riconoscimento del principio di tolleranza in Europa.
Tale fu, da un punto di vista giuridico, anche se la tolleranza non era certo lo scopo che aveva mosso il Duca.
Per la prima volta venne superato in Europa quel principio di politica ecclesiastica stabilito nella Pace di Augusta del 1555 e, in seguito, accettato, nel 1559, nell'assise internazionale di Cateau Cambrèsis: il " CUIUS REGIO, EIUS ET RELIGIO ".
In base ad esso, la diversità religiosa poteva essere accettata in Europa all'unica condizione che vi fosse perfetta identità tra la religione del principe e quella dei suoi sudditi. Erano questi ultimi che dovevano conformarsi alla religione del loro sovrano.
Nessuna mescolanza religiosa poteva essere ammessa all'interno degli stati cattolici, perchè i principi cattolici fossero tutti impegnati a combattere l'eresia e a dare la loro collaborazione all'Inquisizione romana.


Appena due anni più tardi della stipulazione di quel trattato, un Savoia veniva meno e al rispetto di quel principio internazionale e ai suoi precisi obblighi di principe nei confronti della Chiesa Romana.
Con l’accordo di Cavour, siglato nel palazzo degli Acaia-Racconigi il 5 giugno del 1561, il Duca di Savoia tollerava sulle sue terre la presenza di sudditi dissidenti, anzi veniva a patti con essi, assegnando loro dei luoghi di culto ed accettando la sopravvivenza della loro fede, almeno nell'ambito della loro discendenza.
Ai valdesi che si fossero attenuti al trattato, il sovrano garantiva che:
"...non saranno molestati in niuna maniera, nè saranno fastiditi realmente, nè personalmente; anzi abiteranno sotto la protetione di Sua Altezza."
Il riferimento alla Inquisizione non poteva essere più evidente.


Il Savoia aveva fatto la sua scelta unilateralmente, sordo ai richiami del Papa e deciso d'ora innanzi a regolare giuridicamente con una propria legislazione la presenza valdese nel suo territorio.
Non è da meravigliarsi se i valdesi considerarono il Trattato di Cavour , una specie di "Magna Charta" della loro esistenza giuridica. “Il Pontefice sentì grandissimo disgusto che un principe italiano, e aiutato da danari tante volte da lui e non così potente che di lui non avesse sempre bisogno, permettesse vivere eretici liberamente nello stato suo; soprattutto gli premeva l'esempio, che gli potrebbe sempre essere rinfacciato dalli principi maggiori, che volessero permettere altra religione ".
Ma Emanuele Filiberto era stato costretto dalla ragion di stato, ad affrontare la questione valdese in chiave politica e non ideologica.



4.2 Il consolidamento del ghetto fu cosa ormai definita alla fine del secolo, favorita anche dal progressivo abbandono della lingua italiana per il francese. Religione, lingua, usi, costumi e leggi diverse furono gli elementi che determinarono la barriera di incomunicabilità fra Valdesi e piemontesi, barriera che la politica governativa appoggiò ed alimentò. Tra l'altro i matrimoni tra valdesi e cattolici erano assolutamente vietati.
L'editto del 10 giugno 1565, ribadì il divieto per i valdesi di spostare la propria residenza fuori dalle valli e di acquistare proprietà in alcun luogo del Piemonte.


La severità delle sanzioni fu tale da bloccare qualsiasi speranza da parte valdese di poter evangelizzare il Piemonte o di poter andare a risiedere fuori dalle valli,anche senza fare alcuna opera di proselitismo.
L'editto ribadì i confini concessi ai Valdesi nel trattato di Cavour e li condannò a vivere all'interno di essi.
I piemontesi riformati ebbero due mesi di tempo "pena la vita e la confisca di tutti i beni", a vendere i loro beni extra limites e a rifugiarsi nelle valli.
L'applicazione di questo editto fu durissima e sortì l'effetto voluto, di ribadire i termini del ghetto protestante.

Si consolidò così l'"enclave" valdese alpina e con essa l'esasperazione dei matrimoni endogamici, delle tradizioni, dei costumi e della lingua.

Nello stesso tempo però, l'isolamento obbligato rese più forti i legami affettivi, religiosi, culturali e la coscienza di avere un comune destino.

Il ghetto esaltò i caratteri esclusivi di quella che era stata una diaspora europea e trasformò un gruppo di dissidenti religiosi in una nazione, in un popolo-chiesa. I decenni che seguirono al trattato di Cavour, permisero ai valdesi il consolidamento della organizzazione ecclesiastica, che, per quanto fu a loro possibile, fu modellata sull'esempio delle comunità calviniste di Ginevra, la capitale riconosciuta del protestantesimo europeo.
Nell'interno dei piccoli comuni totalmente valdesi fu possibile qualche forma di organizzazione autonoma.
Grande cura fu data all’educazione scolastica di giovani ed adulti.
Già a partire dal 1563, esistevano nelle valli delle scuole organizzate dalle parrocchie e i comuni valdesi ebbero amministrazioni in cui i consiglieri comunali erano anche i responsabili nella conduzione delle chiese.
Il ricorso alla giustizia civile era possibile, ma sempre raro.
I valdesi preferivano fare esaminare i casi di controversie dai concistori delle chiese o da arbitri da loro nominati.
Il controllo ducale sulle comunità valdesi fu sempre ossessivo e si valse dell'opera di un governatore, appositamente nominato, che aveva giurisdizione politica e militare sulle valli e che risiedeva, con la sua guarnigione, nel castello di Torre, appositamente riattato.
Con editto del 4 settembre 1570 il duca stabiliva che detto governatore assistesse ai Sinodi valdesi. La presenza del governatore al Sinodo intendeva di fatto limitare l'autonomia dello stesso costringendolo a deliberare sotto la vigilanza e la censura del rappresentante del sovrano.
In realtà i Sinodi seppero come aggirare questo inconveniente.
La presenza del governatore perdurò fino al 1848, cioè fino all'emanazione dello Statuto albertino.

Emanuele Filiberto e i duchi successivi non si rassegnarono mai del tutto alla esistenza del ghetto, dai loro stessi editti creato, e mirarono a scardinarlo attraverso due vie:
in primo luogo essi attesero alla ricostruzione dei castelli fortezza, che erano stati abbattuti durante il dominio francese,all'insediamento di nuovi feudatari, all'inasprimento dei poteri signorili sui dissidenti religiosi.
In secondo luogo, fu dato largo spazio alle missioni dei gesuiti, sostenute con aggravio economico non indifferente per lo stato,fino all'età della rivoluzione francese.
Riprese nella età della Restaurazione, furono potenziate anche dallo stesso Carlo Alberto, all'indomani della concessione dello statuto.

Le missioni ebbero scarso successo con gli adulti; pertanto volsero il loro interesse verso i tanti bambini valdesi.
Alcuni di essi furono sottratti nascostamente alle famiglie e rifugiati nelle missioni, dalle quali era impossibile riaverli indietro.
Altri venivano allettati a recarsi nelle missioni con un atto apparente di libera volontà che veniva riconosciuto legalmente valido a partire dai dieci anni per le femmine e dodici anni per i maschi.
La sottrazione di questi bambini costituì per i valdesi un capitolo dolorosissimo della loro storia.
Essa dette luogo ad una mole enorme di contenzioso.
I valdesi nessuna giustizia potevano aspettarsi dalla magistratura, eppure nessun ricorso fu risparmiato per riavere i propri figli.
Ma, nella stragrande maggioranza dei casi gli appelli alla magistratura ed allo stesso sovrano non ebbero alcun esito, essendo impossibile il confronto con i bambini ed essendo ritenuta veritiera la dichiarazione dei gesuiti sulla positiva volontà del bambino a rimanere con essi o sul diniego ad esserne in possesso.
Ad una supplica, direttagli nel 1628, che lamentava il rapimento sistematico dei bambini valdesi, adducendone l'elenco, il duca rispose che:
"...il fatto contenuto in questo capo, non spetta a Sua Altezza ".



4.3 Il cinquantennio di regno di Carlo Emanuele I (1580-1630), fu ispirato ad un ardore controriformistico molto più austero ed ad una visione politica molto più angusta di quella del padre. Il sovrano emanò tutta una serie di editti repressivi, partendo dal promettere cento scudi e l'anonimato a chiunque denunciasse trasgressioni commesse dai valdesi.
La pena di morte e la confisca di beni furono previste per chi turbasse l'attività delle Missioni o dissuadesse dal parteciparvi; ai cattolicizzati fu concessa una esenzione fiscale di cinque anni; tremila scudi di multa furono previsti per chi si riunisse nelle chiese per motivi non religiosi; la pena di morte per chi aprisse scuole di eresia; 500 scudi per quelle comunità che tenessero eretici negli uffici pubblici. Si volle che nei consigli comunali, i cattolici dovessero avere la maggioranza numerica, qualunque fosse il loro numero nella comunità ed anche se inefficienti o incapaci. (Editti del 5-2-1596 e del 20-2-1596).


L'editto del 25 febbraio 1602 stabilì la solita pena di morte e la confisca dei beni ai pastori valdesi che predicassero al di fuori dei confini stabiliti dal trattato di Cavour.
Con l'editto del 1618 si proibì ai Valdesi di servirsi dei cimiteri cattolici, pena la vita e la confisca dei beni.
Si impose loro di cercarsi altri camposanti, "senza muro, siepe o altra cosa"; l'accompagnamento funebre non doveva superare le sei persone, " sotto pena di 100 scudi d'oro per caduno di quelli che vi interverranno ".
L'editto del 6 giugno 1620 impose di togliersi il cappello al passaggio del Santo Sacramento e la sospensione forzata dal lavoro durante le festività cattoliche.


Ma nonostante lo spiegamento di tante misure e di tanti allettamenti, anche il duca Carlo Emanuele, come il padre Emanuele Filiberto, dovette arrendersi all'evidenza di "essere costretto a tollerare" quegli eretici "con la speranza, un giorno, che si ravvedino dei loro errori e tornino in grembo di Santa Chiesa".


Il governo di Vittorio Amedeo I (1630-1637) e quello della reggente Cristina (1637-1648) furono impegnati nella guerra europea dei trent'anni (1618-1648), guerra nella quale il Piemonte fu più volte occupato dai francesi, alleati alle potenze protestanti.
Pertanto dal 1630 al 1648 questi sovrani non presentarono una politica ecclesiastica che si discostasse da quella delineata dai predecessori. Spesso non furono neanche in grado di applicare puntualmente i precedenti editti complice, probabilmente, anche la terribile epidemia di peste che imperversò tra il 1828 ed il 1632 ben narrata dal Manzoni nei “Promessi Sposi”.


4.4 La situazione mutò nettamente con il nuovo sovrano, Carlo Emanuele II, che inaugurò nei confronti dei valdesi la terribile repressione del 1655.



La miccia fu accesa da una controversia sorta in merito al Trattato di Cavour.
Occorre in primo luogo chiarire i motivi giuridici a cui si fece ricorso da parte ducale per giustificare la propria azione e per definire "giustissima e degnissima" quella campagna di guerra.

I Valdesi, approfittando dello stato di guerra e della tolleranza dei temporanei dominatori francesi, avevano acquistato proprietà in pianura e si erano stabiliti in territori non previsti nel trattato di Cavour; si erano espansi fino ad oltre venti chilometri dai confini loro assegnati. Avevano anche fondato dei templi in quelle zone extra limites.
L'art. 21 del Trattato di Cavour garantiva ai valdesi che fossero fuori dalle Valli, di abitare in tutto il Piemonte e con protezione ducale, a patto che non vi tenessero culti. (Trattandosi di pochi nuclei di diaspora, essi non destavano preoccupazione).
Si sarebbe invece vietato ai Valdesi delle Valli qualsiasi forma di abitazione al di fuori di esse.
L'articolo 21 invece, secondo i valdesi, concedeva loro anche questa possibilità.

Detto art. 21, se pure riportato dallo storico clericale, il gesuita di Luserna, Marco Aurelio Rorengo, non risultava in altre copie dello stesso atto (ad esempio quella conservata nella Biblioteca vaticana).
L'atto stesso, poi, non fu mai "interinato", cioè non fu mai compreso nelle raccolte ufficiali delle leggi.


Questa mancata interinazione, venne presentata ai valdesi come se inficiasse l'atto stesso.
Inoltre, qual'era il testo esatto del trattato? Quello contenente o quello non contenente l'articolo 21?
Per il sovrano e per la parte cattolica era quello nel quale l'articolo non era compreso.
Allo stato attuale degli studi è impossibile dirlo.
Certo è che, tagliando corto ad ogni controversia, Carlo Emanuele II, il 15 maggio 1650, ordinò l'allontanamento dei Valdesi dai nuovi insediamenti : "sotto pena della vita e della confisca dei beni e la distruzione di undici templi".
Quasi presago della risposta valdese, il sovrano rese esecutivo l'editto solo cinque anni più tardi, con un decreto di attuazione del 25 gennaio 1655.



Tutte le suppliche inviate al Duca, per distoglierlo da quella risoluzione, non vennero accettate o vennero eluse con la specifica della mancanze di regolari deleghe notarili, che dessero pieno potere ai rappresentanti valdesi.
Fu guerra aperta tra sovrano e sudditi.
Attaccati dall'esercito del Duca e massacrati nella " Pasqua di sangue" , del 1655, nonostante le perdite subite, i valdesi si prepararono alla resistenza e nello stesso tempo lanciarono un disperato appello ai governi protestanti d'Europa.
La pressione costante rivolta da Cromwell e dai Cantoni svizzeri, sul Duca di Savoia; lo stesso intervento della Francia, bisognosa di alleanze con l'Inghilterra; la stanchezza per una guerriglia costosa per l'erario, ma non risolutiva, indussero il Duca ad emanare le Patenti di grazia di Pinerolo, il 18 agosto 1655.
Il Duca riconobbe ai Valdesi le abitazioni ed il culto entro gli antichi limiti, garantì la liberazione dei prigionieri e, data la miseria a cui la guerra aveva ridotto la popolazione, la esentò per cinque anni dalle tasse.
Infine, per quanto riguardava i nuovi territori, confermava il permesso di abitazione in San Giovanni, ma lo negava per la riva destra del Pellice.
Apparentemente il documento riproduceva l'accordo di Cavour, anzi concedeva una estensione di territorio.
In realtà era diverso. Si trattava di Patenti di Grazia, non di un trattato.
Il sovrano non riconosceva diritti ai suoi sudditi, ma lasciava chiaramente intendere che le concessioni erano un atto di grazia sovrana e che l'applicazione delle stesse poteva essere più o meno favorevole a seconda del variare delle circostanze.


Gli anni successivi non furono perciò pacifici.
I Valdesi che avevano subito l'esproprio e che non ne avevano avuto indennizzo, così come quelli che erano rimasti privi dei templi, dettero luogo ad una guerra per "bande", condannata dal Duca Carlo con l'editto del 25 giugno 1663.
Solamente la rinnovata mediazione dei Cantoni svizzeri, portò alla sospensione degli interventi militari e alla pubblicazione delle così dette Patenti di Torino del 14 febbraio 1664, arbitrate dai deputati svizzeri, di cui i capi principali erano i seguenti:

1) Conferma delle Patenti di Pinerolo del 1655.
2) Divieto del culto al di fuori delle Valli.
3) Restituzione reciproca dei prigionieri.
4) Presenza obbligatoria di un delegato ducale ai sinodi.
5) Grazia o amnistia per tutti, salvo i colpevoli di reati comuni.

In conclusione, i Valdesi, al termine di un conflitto militare durato otto anni, non ebbero condizioni giuridiche ed economiche migliori, rispetto al 1561.
Il principio del ghetto era stato riconfermato.
Ai "banditi", furono, come di uso, confiscati i beni ed incendiate le case.









DOCUMENTI

1. Professione di fede di Valdesio


In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti atque beatissime semperque virginis Marie. Patear omnibus fidelibus quod ego Valdesius et omne fratres mei, prepositi nobis sacrosanctis evangeliis, corde credimus, fide intelligimus, ore confitemur et simplicibus verbis affirmamus Patrem et Filium et Spiritum Sactum tres personas esse, unum deum totamque deitatis trinitatem coessencialem et consubstantiales et coheternalem et coomnipotentem et singulas quasque in Trinitate personas plenum Deum, et totas tres personas unum Deum, sicut in «credo in Deum», et in «credo in unum Deum» et «quicumque vult» continetur. Patrem quoque et Filium et Spiritum sancutum unum deum, de quo nobis sermo, esse creatorem, et factorem, et gubernatorem et , loco congruo et tempore, dispositorem omnium visibilium et invisibilium, celestium et aeriarum, aquaticam et terrenarum, corde et ore credimus et confitemur. Novi et Veteris Testamenti, idest legis Moisi et prophaetarum et apostolorum, unum eundemque et Deum auctorem credimus, qui in Trinitate, ut dictum est, permanes, omnia creavit; Iohannemque Baptistam ab ipso missum esse sanctum et iustum et <in> [1] utero matris sue Spiritu Sancto repletum. Incarnationem divinitatis non in Patre neque in Spiritu Sancto factam sed in filio tamtum corde credimus et ore confitemur, ut qui erat in divinitate Dei Patris Filius deus verus ex Patre, esset et homo verus ex matre veram carnem habens ex viceribus matris et animam humanam rationabilem, simul in eoutriusque naturae, idest deus et homo, una persona, unus Filius, unus Christus, unus Deus cum Patre et Spiritu Sancto omnium rector et auctor, natus ex vergine Maria vera nativitate carnis, et manducavit, et bibitm et dormivit, et fatigatus ex itinere quievit ; qui passus est vera carnis sue passione, et mortuus est vera corporis sui morte, et resurrexit vera carnis sue resurrectione [2] et vera anime resumptione [3], in qua postquam manducavit et bibit, vos et mortuos, corde credimuset ore confitemur. Unam ecclesia catholica, sanctam, apostolicam et immaculatam, extra quam neminem salvari, credimus. Sacramenta quoque, que in ea celebrantur, inestimabili atque invisibili virtute Spiritus Sancti cooperante, licet a peccatore sacerdote ministrentur, dum ecclesia eum recepit, nullo modo reprobamus, neque ecclesiasticis officiis vel benedictionibus ad eo celebratis detraimus, sed benivolo animo tanquam a iustissimo amplectimur. Approbamus ergo baptismum infantium, ut, si defuncti fuerint post baptismum antequam peccata comitant, fatemur eos salvari et credimus. In baptismate vero omnia peccata tam illud originale peccatum contractum, quam illa, quae voluntarie comissa sunt, dimiti credimus. Confirmationem quoque ab episcopo factam idest impositionem manuum, sanctam et venerandam accipierdam essem cencemus. Sacrificium, idest panem et vinum, post consacrationem esse corpus et sanguine Ihesu Christi, firmiter credimus et simpliciter affirmamus, in quo nichil a bono maius nec a malo minus perficitur sacersote. Peccatoribus corde penitentibus et ore confitentibus et opere secundum scripturas satisfecientibus veniam a Deo posse consequi concedimus, et eis libentissime comunicamus. Unctionem infirmorum cum oleo consecrato veneramur. Coniugia carnalia esse contrahenda secundum apostolum non negamus; contracta vero ordinarie, disiungere omnino proibemus; nec etiam secundam matrimonia dampnamus. Ordines vero ecclesiasticos, idest episcopatum et presbiteratum et ceteros infra et supra, et omne quod in Ecclesia ordinabiliter sancitum [4] legitur aut canitur, humiliter conlaudamus et fideliter veneramur. Diabolum non per conditionem sed per arbitrium malum esse factum credimus. Carnium perceptionem minime culpamus. Corde credimus et ore confitemur huius carnis quam circumgestamus, et non alterius resurrectionem. Iudicium quoque futurum et singulos pro his, que in hac carne gessereunt, recepturos vel praemia vel poenas firmiter credimus et affirmamus. Elemosina et sacrificium, ceteraque beneficia fidelibus posse prodesse defunctis non dubitamus. Et quia fides sedundum Iacobum apostolum «sine operibus mortua est», saeculo abrenuciavimus, et que habebamus, velut a domino consultum est, pauperibus erogavimus et pauperes esse decrevimus, ita ut de crastino solliciti essse non curamus nec aurum nec argentum vel aliquid tale praeter victum et vestitum cotidianum a quoquam accepturi sumus. Concilia quoque evangelica velut praecepta servare proposuimus. Remanentes autem in saeculo et sua possidentes elemosinas ceteraque beneficia ex suis rebus agentes, praecepta Domini servantes salvari eos omnino fatemur et credimus. Qua propter discretionem vestram omnino depossimus, quod si forte contigerit aliquos venire ad vestras partes dicentes se esse ex nobis, si hanc fidem habuerint, ipsos ex nostris non fore pro certo sciatis.


[1] in omesso nel manoscritto.
[2] ms. receptione: la formula di Durando di Huesca e di Bernardo Prim qui usata è resurrectione.
[3] resurrexionis: Durando di Huesca; resumptione: Bernardo Prim omette questa proposizione.
[4] ms. omne et omnia (exponct.) quod in ecclesia sancc et ordinabiliter sanccitum.

Fonte: Haec sunt manifesta per conversos de secta Waldesium, in A. DONDAINE, Les hérésies et l’Inquisition XII-XIII siècles, Norfolk 1990, V, pp. 274-275.







2. Costituzione, del 4 novembre del 1184

Ad abolendam diversam haeresium pravitatem


Ad abolendam diversam haeresium pravitatem, quae in plerisque mundi partibus modernis coepit temporibus pullulare, vigore debet ecclesiasticus excitari, cui nimirum imperialis fortitudinis suffragante potentia, et haereticorum protervitas in ipsis falsitatis suae conatibus elidatur, et catholicae simplicitas veritatis in ecclesia sanctas resplendens, eam ubique demonstret ab omni exsecratione falsorum dogmatum expiatam. Ideoque nos carissimi filii nostri Friderici, illustris Romanorum imperatoris semper Augusti praesentia pariter et vigore suffulti, de communi fratrum nostrorum consilio, nec non aliorum patriarcharum, archiepiscoporum multorumque principum, qui de diversis partibus imperii convenerunt, contra ipsos haereticos, quibus diversa capitula diversarum indidit professio falsitatum, praesentis decreti generali sanctione consurgimus, et omnem haeresim, quocumque nomine censeatur, per huius constitutionis seriem auctoritate apostolica condemnamus.
Imprimis ergo Catharos et Patarinos et eos, qui se Humiliatos vel Pauperes de Ludguno falso nomine mentiuntur, Passaginos, Iosephinos, Arnaldistas perpetuo decernimus anathemati subiacere. Et quoniam nonnulli, sub specie pietatis virtutum eius, iuxta quod ait Apostolus, denegantes, auctoritatem sibi vendicant praedicandi: quum idem Apostolus dicat: "quomodo praedicabunt, nisi mittantur?" omnes, qui vel prohibiti, vel non missi, praeter auctoritatem, ab apostolica sede vel ab episcopo loci susceptam, publice vel privatim praedicare praesumpserint, et universos, qui de sacramento corporis et sanguinis Domini nostri Iesu Christi, vel de baptismate, seu de peccatorum confessione, matrimonio vel reliquis ecclesiasticis sacramentis aliter sentire aut docere non metuunt, quam sacrosanta Romana ecclesia praedicat et observat, et generaliter, quoscumque eadem Romana ecclesia vel singuli episcopi per dioceses suas cum consilio clericorum, vel clerici ipsi sede vacante cum consilio, si oportuerit, vicinorum episcoporum haereticos iudicaverint, pari vinculo perpetui anathematis innodamus. Receptores et defensores eorum, cunctosque pariter, qui praedictis haereticis ad fovendam in eis haeresis pravitatem patrocinium praestiterint aliquod vel favorem, sive consolati, sive credentes, sive perfecti, seu quibuscunque superstitiosis nominibus nuncupentur, simili decernimus decernimus sententiae subiacere.
Quia vero peccatis exigentibus quandoque contigit, ut severitatis ecclesiasticae disciplinae ab his, qui virtutem eius non intelligunt, contemnatur, praesenti, nihilominus ordinatione sancimus, ut, quicunque manifeste fuerint in haeresi deprehensi, si clericus est vel cuiuslibet religionis obumbratione fucatus, totius ecclesiastici ordinis praerogativa nudetur, et sic omni pariter officio et beneficio spoliatus ecclesiastico, saecularis reliquatur arbitrio potestatis, animadversione debita puniendus, nisi continuo post deprehensionem erroris ad fidei catholicae unitatem sponte recurrere, et errorem suum ad arbitrium episcopi regionis publice consenserit abiurare, et safistationem congruam exhibere. Laicus autem, quem aliqua praedictarum pestium notoria vel privata culpa resperserit, nisi, prout dicutum est, abiurata haeresi et satisfactione exhibita confestim ad fidem confugerit orthodoxam, saecularis iudicis arbitrio reliquantur, debitam recepturus pro qualitate facinoris ultionem.
Qui vero inventi sola ecclesiae suspicione notabiles, nisi ad arbitrium episcopi iuxta considerationem suspicionis qualitatemque personae propriam innocentiam congrua purgatione monstraverint, simili sententiae subiacebunt. Illos quosque, qui post abiurationem erroris, vel, postquam se, ut diximus, proprii antistitis examinatione purgaverint, deprehensi fuerint in abiuratam haeresim recidisse, saeculari iudicio sine ulla penitus audentia decernimus relinquendos, bonis damnatorum clericum ecclesiis, quibus deserviebant, secundum sanctiones legitimas applicandis.
Sane praedictam excommunicationis sententiam, cui omnes haereticos praecipimus subiacere, ab omnibus patriarchis, archiepiscopis et episcopis in praecipuis festivitatibus, et quoties solennitates habuerint vel quamlibet occasionem, ad gloriam Dei et reprehensionem haereticae pravitatis decernimus innovari, auctoritate apostolica statuentes, ut, si quis de ordine episcoporum in his negligens fuerit vel desidiosus inventus, per triennale spatium ab episcopali habeatur dignitate et administratione suspensus.
Ad haec de episcopali consilio consilio et suggestione culminis imperialis et principum eius adiecimus, ut quilibet archiepiscopus vel episcopus per se, vel archidiaconum, suum [sic], aut per alias honestas idoneasque personas, bis vel semel in anno propriam parochiam, in qua fama fuerit haereticos habitare, circumeat, et ibitres vel plures boni testimonii viros, vel etiam, si expedire videbitur, totam viciniam iurare compellat, quod, si quis ibidem haereticos scierit vel aliquos occulta conventicula celebrantes, seu a communi conversatione fidelium vita et moribus dissidentes, eosepiscopo vel archidiacono studeat indicare. Episcopus autem vel archidiaconus ad praesentiam suam convocet accusatos, qui, nisi se ad eorum arbitrium iuxta patriae consuetudinem ab obiecto reatu purgaverint, vel, si post purgationem exhibitam in pristinam relapsi fuerint perfidiam, episcoporum iudicio puniantur. Si qui vero ex eis, iurationem superstitione damnabili respuentes, iurare forte noluerint, ex hoc ipso haeretici iudicentur, et poenis, quae praenominatae sunt, percellantur.
Statuimus insuper, ut comites, barones, rectores et consules civitatum et aliorum locorum, iuxta commonitionem archiepiscoporum et episcoporum, praestito corpolariter iuramento promittant, quod in omnibus praedictis fideliter et efficaciter, ab eis exinde fuerint requisiti, ecclesiam contra haereticos et eorum complices adiuvabunt et studebunt bona fide iuxta officium et posse suum ecclesiastica simul et imperiali statuta circa ea, quae diximus, exsecutioni mandare. Si vero id observare noluerint, honore, quem obtinent, spolientur et ad alios nullatenus assumantur, eis nihilominus excommunicatione ligandis, et terris ipsorum interdicto ecclesiae supponendis. Civitas autem, quae his decretalibus institutis duxerit resistendum, vel contra commonitionem episcopi punire neglexerit resistentes, aliarum careat commercio vicitatum et episcopali se noverit dignitate privandam.
Omnes etiam fautores haereticorum tanquam perpetua infamia condemnatos, ab advocatione et testimonio et aliis publicis officiis decernimus repellandos. Si qui vero fuerint, qui a lege diocesanae iurisdiciones exempti, soli subiaceant sedis apostolicae potestati, nihilominus in his, quae superius sunt contra haereticos instituta, archiepiscoporum vel episcoporum subeant iudicium, et eis in hac parte, tanquam a sede apostolica delegatis, non obstantibus libertatis suae privilegiis, obsequantur.


Fonte: Concile de Verone. Decretale Ad abolendam diversarum haeresium pravitatem du 4 novembre 1184, in Enchriridion fontium valdensium, a cura di G. GONNET, Torre Pellice 1958, pp. 50-53.



3. ACCORDO DI CAVOUR DEL 5 GIUGNO 1561


Capitulationi et articoli ultimamente accordati tra l'Illustrissimo Signor Monsignore di Racconigi da parte di Sua Altezza et quelli delle valli di Piemonte chiamati valdesi.

Che si spediranno lettere patenti di Sua Altezza, per le quali sarà manifesto che fa remissione et perdona a quelli delle Valli... et a tutti quelli che a loro paiono haver dato aiuto degl'errori nei quali potrebbero essere incorsi, sì per aver pigliate l'armi contra Sua Altezza come contra li Signori e Gentilhuomini particolari, li quali governano, et tiene in sua protettione.

Che sarà permesso a quelli d'Angrogna, Bobio, Villaro, Valguichart, Rora, membra della Valle di Lucerna, et a quelli di Rodoret, Marcille, Maneglian et Salsà, membra della Valle di S.Martino, di poter fare congregationi, far predicare et altri ministerii della loro Religione nelli luoghi ordinari. Al Tagliaret e Bonet, sarà permesso predicare, purchè non si entri per far questo nel restante dei confini della Torre.



Che non sarà lecito alle sopradette membra delle Valli di Lucerna e di S.Martino, venire nel restante de confini di quelle, né nel resto del Dominio di Sua Altezza, né passare li termini per far prediche, congregationi, o dispute havendo solamente libertà di ciò fare nelli loro confini; et caso che fussero interrogati della loro fede, potranno rispondere senza incorrere in pena alcuna, reale o personale.

Sarà permesso di fare il simile a quelli della Parrochia di Perosa, li quali al presente son fugitivi per causa della detta religione...[nella località detta Podio]

Sarà permesso a quelli della Parrocchia di Pinacchia della Valle di Perosa, et a quelli che al presente sono fugitivi per causa della detta religione, et solevano fare andare alle Prediche, Congreghe et altri ministerii di quella Religione, di far il medesimo nel luogo chiamato il Grandobion.

Sarà permesso a quelli della Parochia di S.Germano della valle di Perusa et a quelli della Roccapiata... d'haver un ministro [rispettivamente ai Dormigliosi e ai Godini]

Sarà permesso a tutti quelli delle città e ville delle dette Valli, li quali al presente sono fugitivi e perseverano nella detta religione, non ostante qualsivoglia promessa o abiuratione... di andarsene et ritornare nelle loro case con le sue famiglie... andando et venendo alle prediche, congregationi, che per loro Ministri si faranno nelli luoghi sopra deputati, purché osservino tutto ciò che è detto sopra. Et perché molti delle dette città et ville habitano fuori delli termini assegnati alle Prediche, havendo bisogno di essere visitati o d'altre cose conforme alla detta loro Religione, sarà permesso a loro Ministri li quali habitaranno dentri a li termini, senza preiudicio loro visitarli et aggiutarli con li ministerii che li saranno necessarii, purché non faccino prediche, né congregationi suspette.

Saranno li sopradetti della detta Valle provisti di buona giustizia onde conosceranno di essere sotto la protetione di Sua Altezza, come tutti gli altri sudditi.

... se da qui a qualche tempo Sua Altezza vuole fare un forte nel luogo di Villaro, il detto luogo non sarà costretto far le spese...

Sarà lecito alli sopradetti prima di licenziare li Ministri che piacerà a Sua Altezza, che siano licenziati, di ricercarne e farne venire delli altri, in luogo di quelli...

Finalmente a tutti li sopradetti delle Valli et a quelli di Meane, Roccapiatta et S.Bartolomeo, di qualsivoglia grado et qualità che siano, purché non siano Ministri, sarà lecito et permesso di poter conversare et habitare in comune conversatione con gl'altri sudditi di Sua Altezza; et potranno habitare, andare et tornare per tutti li luoghi et paesi di Sua Altezza, vendere et comprare, trafigare in tutte le sorti di Mercantie et in tutti li luoghi et paesi di Sua Altezza come di sopra, purché non predichino, né faciano Congregationi, né dispute; et quelli li quali sono tra li termini non habitino fuori di quelli, et quelli che sono nelle Città et Ville delle giá dette Valli non habitino fuori di quelle né fuori dei loro confini. Et che ciò facendo non saranno molestati in niuna maniera, né saranno fastiditi realmente, né personalmente; anzi habiteranno sotto la protetione di Sua Altezza.

Et per assicuratione di tutte le cose sopradette Giorgio Monastero, Sindico di Angrogna et ambasciatore di quelle Valli; Costanzo di Alestini altrimenti Rimbaldo, Sindico d'Avillaro; Pirone Ardimio, mandato della comunità di Bobio; Michele Raimondetto, mandato dalla Communità di Tagliaret della Rucia di Bonet confini della Torre; Giovanni Malanotte, mandato da particolari di S.Giovanni; Pietro Pascale, mandato dalla Communità della Valle di S.Martino; Tomaso Romano di S.Germano, mandato dalla Communità del detto luogo et da tutta la Valle di Perusa, promettono per loro et le loro Communità, mentre che il contenuto delle Capitulationi sopradette sarà inviolabilmente osservato, et in caso d'inosservanza, si sommettono a tali pene che piacerà a Sua Altezza, promettendo similmente far approvare et confirmare la detta promessa per li capi delle case delle dette Communità.

L'Illustre Signore Monsignor di Racconigi promette che Sua Altezza ratificherà et approvarà le suddette capitulationi a li sopradetti, in generale et particolare; a intercessione della Serenissima Madama la Principessa, et della sua gratia speciale. Et in fede di ciò il sopradetto Monsignor di Racconigi ha confirmato le sopradette Capitulationi di sua mano propria, et si sono sottoscritti li Ministri a nome di tutte le loro Communità.

A Cavore (Cavour) il quinto di Giugno 1561.
Filippo di Savoia, Francesco Valla Ministro di Villano, Claudio Bergio Ministro di Tagliaret, Giorgio Monasterio, Michele Raimondetto

Fonte: Capitulationi et articoli ultimamente accordati tra l'Illustrissimo Signor Monsignore di Racconigi da parte di Sua Altezza e quelli delle valli di Piemonte chiamati Valdesi; Manoscritti: Archivio di Stato di Torino e Biblioteca Vaticana, in Histoire memorable... a cura di E. Balmas, Torino, 1972, pp. 125 ss.


 
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